Prima di inforcare le bici e partire, ricorderanno i lettori più fedeli, abbiamo fatto alcuni “pre-viaggi” d’assaggio. Un po’ per testare mezzi e gambe, un po’ per raccogliere spunti da approfondire in seguito.
La Valle di Susa, protagonista suo malgrado del modello delle Grandi Opere, è stata la nostra prima meta. Non soltanto per avere indicato la via a quelli che Matteo Renzi chiama poco rispettosamente “i comitatini” a difesa dell’ambiente e contro le spese inutili (e sospette) delle grandi infrastrutture. Ma per avere anche intuito, e portato avanti, quello che può essere un autentico nuovo modello di sviluppo, utile all’intero Paese.
Sistematicamente dipinta come un covo di terroristi, enclave di montanari retrogradi e ignoranti, la Valsusa è da sempre una valle di transito, perciò culturalmente aperta, eterogenea: non esiste “un” abito tipico, un ballo tipico, un piatto tipico “della Valle”. Nel suo territorio di straordinaria diversità convivono pianura e alta montagna, un lato al sole e un lato all’ombra, si parla italiano, occitano, francese e piemontese; è incessante l’accoglienza, la disponibilità, l’apertura.
Simbolica la collocazione della sede di Etinomia, e del consorzio CanapaValleSusa: a Sant’Ambrogio, sulle pendici della Sacra di San Michele, dove la valle comincia a restringersi e a salire, verso i valichi del Monginevro e del Moncenisio, verso la Francia.
Quando Danilo si è trovato sulle barricate del 2005, a difendere la sua Venaus dalle ruspe a costo di denunce e manganellate, si è chiesto in quali altri modi avrebbe potuto difendere la sua terra. Ha così “saltato il fosso”, lasciando lo stipendio sicuro della fabbrica per l’avventura della cooperativa agricola. E ha messo insieme 18 ettari di terreno prima divisi tra centrotrenta proprietari, di cui molti emigrati e scomparsi da decenni.
Carlo ha lasciato il suo lavoro in città già da diversi anni e ha acquistato una cascina lungo l’antica via dei Pellegrini che, sopra Avigliana, porta alla Sacra di San Michele. Piedi scalzi sulla terra nuda, il suo tono pacato trasmette la serenità di chi ormai si è lasciato alle spalle il mondo frettoloso e consumistico e ha trovato la sua dimensione. Quando siamo saliti per conoscere lui e la sua compagnia (in fase di trasferimento nella cascina), ci ha accompagnati – in mano un vassoio pieno di semi di canapa- sui terreni terrazzati: anche noi abbiamo dato il nostro contributo spargendo i duri chicchi nella terra ferrosa.
Da centinaia di anni risorsa primaria per mezzadri e coloni, la canapa serviva per i vestiti, la biancheria, i lenzuoli, i cordami. Abbandonata durante il boom economico a favore di tessuti e materiali sintetici, è recentemente tornata a giocare un ruolo importante anche in altri settori. La moderna sensibilità ambientale l’ha scoperta ideale per la nuovissima bioedilizia; l’assenza di glutine nei suoi semi la rende adatta all’alimentazione dei celiaci; è praticamente una pianta infestante, che attecchisce facilmente, richiede poca acqua, tiene lontani i parassiti e non necessita di pesticidi e per questo viene utilizzata anche per la bonifica dei terreni inquinati come quelli dell’Ilva. Una risorsa dalle potenzialità formidabili persino nei ristretti terrazzamenti del territorio montuoso della Valle.
CanapaValleSuSa ha lanciato un progetto attraverso cui Carlo, Danilo e gli altri soci si prestano alla sperimentazione della “nuova” coltura. Non solo la coltivazione ma anche le prime fasi di trasformazione, con possibilità di creare ulteriore occupazione in loco: laboratori tessili, un frantoio, un mulino per la produzione di olii e farine.
Un processo lungo e impegnativo, ma che dà la misura di un nuovo concetto di agricoltura: giovani uomini e donne che consapevolmente ritornano alla terra studiandone le caratteristiche e rispettandone le esigenze, cercando di trarne il giusto profitto. Quasi un ribaltamento dei ruoli rispetto al mondo dei vinti: non più sottomessi alla terra e ai capricci del clima, ma anche consapevoli oppositori delle logiche spietate del mercato globale.
Dopo avere conosciuto il presente della canapa, il viaggio ci offre l’occasione di ripercorrerne la storia. Il primo Museo dedicato alla canapa che troviamo sul nostro cammino è a Sant’Anatolia di Narco, poco lontano da Spoleto. Fondato nel 2008, ha sede in un suggestivo palazzo cinquecentesco che domina la collina, in cui siamo accolti dalla giovane vicedirettrice Eva Contardi. Anche in questo caso la canapa funge da filo conduttore per raccontare la vita della popolazione fino alla prima metà del 1900. Una notevole collezione di umili e ingegnose macchine per la filatura e la tessitura testimonia di una fitta attività passata.
“La canapa era coltivata in tutta la Valnerina, usata per la fibra tessile e le corde. perché era una varietà molto resistente, e in minima parte per uso alimentare. Adesso sappiamo che esistono due varietà di canapa, la cannabis Indica e la Sativa, ma una volta il seme era misto, quello che capitava capitava e non stavano a fare distinzione. In Italia dal 2002 è permesso coltivare solo la Sativa che abbia non più dello 0,02{17c081956b6e3eb447b6624e90fca47d4241cd01e0c7cda94c57eb9c3d4dd548} di Thc. La varietà italiana è la Carmagnola. La Francia sta sperimentando delle varietà monoiche in modo da avere piante alte fino ai 5 metri che sarebbero utilizzabili per qualsiasi cosa.”
Il Museo non è solo un luogo di raccolta della memoria contadina, ma è occupato anche nel creare relazioni attive con il territorio attraverso il progetto TUN. Finanziato dalla Regione Umbria, si propone di creare un prototipo di produzione e di prima trasformazione delle fibre tessili naturali: non solo la canapa ma anche il lino, l’alpaca, il mohair…
“Il museo rappresenta la storia degli abitanti di Sant’Anatolia, di questa cultura e tradizione che stiamo cercando di rinnovare, ma lavora anche con quelle associazioni che a livello pratico-agricolo vogliono reincentivare la coltivazione della canapa, che è ecologica e conveniente economicamente. Facciamo molta didattica, per le scuole e per gli adulti attraverso laboratori dedicati all’apprendimento sull’uso del telaio”.
La tessitura era solo l’ultima fase della trasformazione della pianta, che cominciava con la falciatura e proseguiva con l’essiccazione, la legatura e la macerazione nell’acqua del fiume; messa ad asciugare, veniva poi gramulata e cardata, infine tinta con elementi naturali quali il sambuco, il guado, lo zafferano, la cipolla, il cavolo cappuccio.
Il ciclo della canapa scandiva la vita della donna fin dalla nascita, se è vero che si cominciava a seminare all’annuncio della nascita di una bambina: la fibra tessile veniva messa da parte per il suo corredo e la predestinata cominciava a prendere confidenza con il telaio fin dai quattro anni. A 17-18 anni era il momento di filare la sua biancheria. Ed era proprio in queste occasioni -momenti di vita sociale- che le capitava di conoscere quello che sarebbe stato il suo futuro marito, che la corteggiava “facendole il filo”: regalandole i fusi, gli aspi o gli incannatoi.
La via della canapa sta diventando un percorso particolare all’interno di #2RR. Ne riparleremo.
Intanto la nostra visita al museo si conclude con una sorpresa, preparataci in absentia dalla direttrice Glenda Giampaoli: il mojito di Diego, gestore del bar Hakuna Matata di fronte al museo.