Dalla Langa alla Valsusa, tra nocciole canapa e trenini

Scrivere del viaggio #2RR ci permette di rivivere l’esperienza andando a ripescare nelle memorie, ahimè sempre più lontane, ma urge fare una pedalata all’indietro perché, come ogni viaggio, anche questo è cominciato prima di partire.

In una sera di aprile, quando il percorso si era già sedimentato nella nostra testa, incontriamo Roberta Ferraris, ospite di Aspettando il festival di Camminare lentamente, rassegna organizzata a Moncalieri all’interno del Salone Off.

Confessiamo di esserci andati apposta per incontrarla: avevamo già letto il suo simpatico libretto Vado a vivere in campagna ed eravamo curiosi di visitare la sua cascina di Paroldo, in Alta Langa, dove vive da più di dodici anni.

#2RR con Roberta al Festival della Viandanza 2014
#2RR con Roberta al Festival della Viandanza 2014

Il 26 maggio in treno arriviamo a Savigliano con bici al seguito: è la nostra prima vera tappa che getterà le basi di quelle successive.

Monotona pianura fino a Cherasco, dove cominciano le prime salite e anche la mente si attiva. La bassa Langa è ricca di aree industriali, che si alternano a estesi noccioleti, di piste ciclabili neanche a parlarne, qui l’asfalto è tutto al servizio di camion che trasportano materie prime per la gastronomia di alta qualità. E intanto gli autosauri sembrano non accorgersi di noi, che filiamo dritti oscillando tra la linea bianca e la cunetta. Insomma, non è proprio un bel vedere! Per raggiungere il vero Belvedere Langhe dobbiamo fare ancora far girare i pedali in salita. Da Cherasco a Monchiero costeggiamo il Tanaro, ora da una riva ora dall’altra, sfiorando Novello.

Evitiamo i grandi centri come Bra, che ci costringerebbero ad allungare il percorso: tra continue salite e scollinamenti, ridendo e scherzando, e in compagnia di qualche sporadica goccia d’acqua, ci aspettano 52 km. Da Dogliani la pedalata diventa seria, le continue pendenze cominciano a farsi sentire e questo ci dice che stiamo penetrando nella Langa fenogliana, nel cuore delle terre del vino. Dalla piana industriale ai vigneti di Dojan, Dogliani. Ma non ci lasciamo inebriare dalla “Coppa di Giano” e proseguiamo. Col senno di poi possiamo dire che, nonostante la salita, i continui tornanti rendono più dolce la strada, il cui ritmo è dettato da 14 piloni votivi della Via Crucis, che precedono il Santuario della Madonna delle Grazie: siamo diventati di colpo due pellegrini in bicicletta, con l’unica differenza che evitiamo di fermarci ad ogni pilone per non affrontare le partenze in salita, che  -l’automobilista lo sa bene- son davvero faticose!

Siamo sulla provinciale per Murazzano e Belvedere Langhe, a nostro avviso, è uno dei punti più belli, una finestra aperta sulla Langa che, pur in collina, respira aria di montagna: quella delle Alpi Marittime, delle Cozie e del Monte Rosa. I saliscendi tra tappeti verdi ci conducono a Murazzano, dove percorriamo alcuni tratti delle Salite dei Campioni, un percorso ad anello che si dipana lungo sei salite, ognuna dedicata ad un campione del ciclismo.

Sfioriamo gli 800 metri di altezza. Tra pioggerellina, ombre e qualche sprazzo di sole, arriviamo al penultimo incrocio: a destra si scenderebbe beatamente verso Ceva, andando avanti non vediamo per ora case, ma i segnali promettono borgata Paroldo. Nella natura silenziosa (a parte qualche Ferrari che fa bella mostra) continuiamo dritto, fino all’ultimo bivio, stavolta in piena campagna. Il navigatore si è arreso, perciò seguiamo le istruzioni di Roberta: alla catasta di legna scendete sullo sterrato a destra per circa 2 km. E così facciamo, ed entriamo nella Cascina Zan, in località Viora.
Prato verde sotto i piedi, un vecchio fienile a sinistra, due asine, Lucia e Grigina, a destra e un tappeto di colline davanti a noi, all’orizzonte le cime che ci dividono dalla Liguria.

Le colline che si staccano dal Tanaro sono un mosaico di vigneti, di campi verdi e gialli, di terre nude, dure, arse, grigie e bianche, pronte per gli scassi. Poi il confine tra la bassa e l’alta Langa, il giardino dei vigneti che si dirada, le colline che si spogliano, che diventano montagna. Chi non conosce le Langhe rischia di perdersi in questo oceano di mari calmi e di mari in burrasca, […] La bassa Langa geometrica ma morbida, l’alta Langa a tratti aspra, come tagliata con l’accetta, ma mai cupa come la montagna

scriveva Nuto Revelli del suo Mondo dei vinti.

Uno scorcio di Langa
Uno scorcio di Langa

Roberta Ferraris, per noi Roberta: scrittrice, guida naturalistica, disegnatrice, camminatrice e pure contadina. Tra le righe del suo libretto Vado a vivere in campagna- Dieci regole per passare dal sogno alla realtà Roberta racconta della sua fuga da Milano, già nel 1995, per stabilirsi prima in una piccola borgata della Lunigiana, circondata dalle Alpi Apuane, poi in Alta Langa, dopo un doveroso esercizio sul “come farsi tutto in casa”. Forte dei successi sulla panificazione, la ricerca delle erbe commestibili, l’orticoltura, nel 2002 è pronta per la più remota Langa. Qualche rinuncia, sì, ma tanto di guadagnato. Parola sua! Nella sua cascina, che sta pian piano ristrutturando, ci danno il benvenuto qualche gatto, due asine in vacanza e qualche gallina. Cuoca eccellente, ha reso la sua Cascina un’azienda agricola, nonché fattoria didattica, “punto di partenza per escursioni con o senza asino”. Un’accoglienza semi-contadina, una doccia calda e poi…la stufa a legna! Mentre lei cucina noi donne parliamo e Daniele registra, ma è distratto dal tabellone di Aldo, attempato chitarrista di strada, che si è costruito una gigantesca lavagna mobile che si porta dietro le parole delle più famose canzoni di tutti i tempi: un karaoke pre-moderno che ricorda un po’ i cantastorie d’altri tempi ormai. E che cosa possono fare secondo voi due cantastorie che si incontrano? Cantare e suonare, no?!

Nel tepore di casa e inebriati dai profumi di cucina, Roberta ci racconta quanto sia cambiata l’alta Langa dagli anni Sessanta ad oggi: “la prima migrazione era diretta in Argentina, ma da lì molti son tornati; nel dopoguerra lo spostamento era verso Torino, la città delle fabbriche, e Alba, la città della Ferrero, ma i contadini non si sono sradicati dalla loro terra, facevano i pendolari tra città e campagna”. C’era pur sempre bisogno di qualcuno che continuasse a coltivare la materia prima: le nocciole! Se da un lato il contadino diventava operaio con un sovraccarico di lavoro, dall’altro il pulmino che trasportava i lavoratori evitava lo spopolamento di quella parte di campagna. “È per questo che la famiglia Ferrero è ancora molto amata ad Alba”, continua Roberta, “ma nonostante il pendolarismo la Langa si è ugualmente spopolata, perché la gente era stanca di lavorare troppo: i primi trattori sono arrivati negli anni ‘60, prima si lavorava di zappa!”. E poi mancavano i collegamenti stradali. Oggi il 72{17c081956b6e3eb447b6624e90fca47d4241cd01e0c7cda94c57eb9c3d4dd548} dei comuni italiani ha meno di 5.000 abitanti e 3.000 di questi paesi rischiano di estinguersi. Le conseguenze? Aumento di terreni incolti, quindi redditi bassi, chiusura di scuole, ospedali, accorpamento dei servizi amministrativi e sociali, soppressione delle linee ferroviarie (dove esistenti!). Paesi che diventano sempre più periferie di poche grandi città sature di gente, colme di servizi che non si riesce a gestire, punti nevralgici della comunicazione aerea, ferroviaria, autostradale, città in cui le fabbriche sono ormai dei grandi cimiteri vuoti dove cresce l’erba e il lavoro impiegatizio vacilla.

Musica con Daniele e Aldo (instagram di @donnadilanga)
Musica con Daniele e Aldo (foto di @donnadilanga)

L’organetto si rivela fedele compagno di una intimità familiare difficile da riprodurre con le parole, perché appartiene a quei momenti con Roberta, Daniela, Aldo e altri amici.

E ci torna in mente una lettura fatta poco tempo prima:

“In tutte le case il bicchiere di vino è d’obbligo, così i dialoghi appena avviati regolarmente si interrompono, e incomincia il rito del vino fatto in casa, […]. Sistemo sul tavolo il magnetofono. Uno di loro mi dice: «Ma bravo, ha portato la fisarmonica?”.

È ancora Nuto Revelli a scrivere.

Il mondo dei vinti, L’anello forte e Il popolo che manca ci hanno iniziati a questo mondo: intense testimonianze di storia orale, sono un affresco del forte e tragico mutamento avvenuto nel Paese a partire dal secondo Dopoguerra fino al boom economico e al conseguente abbandono della campagna. Il suo era un mondo contadino, un mondo resistente, ma non ribelle; quello che incontriamo noi -ad un anno quasi dal viaggio possiamo dirlo- è un mondo che non ha una radice contadina -perché non può averla-, ma è un mondo resistente e a suo modo ribelle. Resistente perché tenacemente resiste alle difficoltà della terra, della burocrazia e della legislazione; ribelle perché vuole uscire dall’omologazione che impone il consumismo, economico e di valori, chiede un riscatto, coltiva la terra non con la schiena piegata in due ma con gli occhi rivolti verso l’orizzonte.

Il mattino dopo, lasciata la Viora, a Paroldo, risaliamo sulla strada principale in direzione Ceva, per la stazione. E ci godiamo una discesa che ci ripaga di tutte le fatiche collinose. Alla stazione saliamo sul treno e assaporiamo le prime gioie dell’intermodalità bici-treno: rimaniamo all’ingresso del vagone perché scopriamo che la carrozza non è attrezzata per ospitare bici. Ma va’! Il controllore ci dice che non potremmo proprio salire in bici su quel treno, nonostante sia un regionale, ma ci lascia proseguire.

 Ma non sapevamo ancora che dopo sei mesi da quel giorno saremmo ritornati su quelle strade per andare a scoprire come si cammina con gli asini e cosa si respira tra i boschi di Torresina, poco più a sud di Paroldo. E scopriamo, in un borgo di circa quaranta abitanti, un’accogliente trattoria: mamma e nonna in cucina, papà al bar, distese di plin su vassoi di cartone, tre sorelline, una qualche centimetro più alta delle altre, che servono ai tavoli buttando sovente l’occhio al televisore, e alle pareti appese immagini di contadini che giocano al balun a pügn, a pantalera o a la lunga, sulle piazze. E il tempo sembra essersi fermato.


Verso la Cascina Pogolotti
Verso la Cascina Pogolotti

 Prima ancora di cavalcare le colline delle Langhe, il nostro pre-viaggio esplorativo ci ha condotto in un’altra direzione. Destinazione Valsusa, ai piedi della Sacra di San Michele. In una calda mattina di aprile, da Torino raggiungiamo Avigliana in treno, attraversiamo il paese, circumnavighiamo in parte il Lago Grande dove comincia la salita verso la Cascina Pogolotti, sull’antica Via dei Pellegrini. La salita è dura, e siamo solo all’inizio.

Festa in Cascina Pogolotti!
Festa in Cascina Pogolotti!

Siamo a circa 700 m slm, nel comune di S.Ambrogio di Torino, circondati da fitti boschi e da una stupenda vista sui Laghi di Avigliana: siamo ancora troppo incoscienti e impreparati rispetto alle gioie e alle fatiche che ci regalerà il viaggio in seguito. Forse però è la prima volta che ci troviamo a parlare con la natura senza mediazioni di alcun tipo. Più che parlarle la osserviamo, e nonostante fosse solo aprile, sentiamo un gran caldo! Dopo alcune centinaia di metri di sterrato a cui non eravamo preparati, abbandoniamo la Via Maestra che prosegue dritta verso la Sacra e siamo accolti in cascina da Carlo Guerra. La comitiva di amici siede ad una tavola imbandita, circondata da qualche bimbo che scorrazza tra l’erba, un semenzaio di piante officinali e qualche albero da frutto.

La cascina prende il nome dal vecchio proprietario, l’azienda di Carlo si chiama L’Apellegrina e sorge sul Monte Pirchiriano, alle spalle della Sacra. Tutto intorno solo verde e boschi, gli abitati più vicini sono più giù, lungo la strada a qualche chilometro di distanza. E le biciclette non sono certo il mezzo più comodo per salire fin quassù! Carlo e Margherita, la sua compagna, vivono qui da ormai undici anni, nove dei quali trascorsi occupando il luogo, quasi del tutto abbandonato: “per nove anni casa e terreno non erano di nostra proprietà, i proprietari sopportavano la nostra presenza, fino a quando abbiamo rischiato di essere cacciati via per aver recintato il terreno; in seguito siamo riusciti a comprare casa e terra”. Nel frattempo è nata l’azienda agricola e l’abitazione si è arricchita di un nuovo ospite, Marcello Salvati, che da Torino si è trasferito qui allevando poche pecore dalle quali fa formaggio, che vende nei mercati locali.

Il discorso sull’accesso alla terra comincia proprio da qui, e qui cominciamo a individuare pian piano tutti i raggi delle due ruote che ci porteranno lontano. Mentre in Francia negli anni ‘60 cominciava la regolamentazione del settore agricolo -per esempio prezzi delle terre calmierati- in Italia la politica industriale spingeva verso l’abbandono, la frammentazione e la desertificazione delle terre.

“I giovani devono tornare a coltivare!” è quello che si sente dire spesso dai pulpiti di chi non ha mai preso in mano neanche la zappa. I giovani, quelli che vogliono fare di mestiere i contadini, ci sono, sono le leggi che mancano. Gli acquisti diretti al produttore negli ultimi anni sono aumentati, ma una piccola azienda agricola si trova a dover affrontare: la ricerca di terra, il riconoscimento della terra come bene collettivo, l’accesso ad un contratto di affitto che garantisca i tempi lunghi dell’agricoltura, la delocalizzazione dei prodotti e lo sfruttamento della manodopera delle grandi aziende, le sole ad usufruire dei contributi europei. Persino il mercato degli strumenti agricoli non aiuta: per lavorare terre di piccole dimensioni bisogna ordinare i macchinari dalla Francia! Proprio in Francia, ci ricorda Carlo, nel 2003 nasce Terres de liens, un movimento divenuto anche fondazione che acquista terreni agricoli usando un fondo collettivo. Perché l’uso della terra riguarda tutti ed è anch’esso un atto politico di determinazione di un diritto. Sullo stimolo francese in Italia sono nate diverse realtà con uno scopo affine: Genuino Clandestino, Campi Aperti, terraTERRA, Terra Fuori Mercato, Accesso alla Terra.

L’anno scorso l’azienda di Carlo, che nel frattempo ha fondato anche l’associazione Princìpi Pellegrini,  ha intrapreso, insieme ad altri agricoltori della valle, la sperimentazione della coltivazione della canapa. Alla guida dei pellegrini è l’Associazione CanapaVallesusa, “che si propone -ci racconta la Presidente Katia Zesi quando la incontriamo-, di recuperare la coltura e la cultura della canapa in valle, sia per valorizzare il nostro patrimonio etnografico sia per promuovere una filiera corta sul territorio, che possa rappresentare anche uno sbocco lavorativo”. Nel gruppo di avanguardia, oltre a diverse piccole aziende aderenti alla rete di Etinomia, c’è anche Danilo, l’agricoltore di cui abbiamo già raccontato qui.

Danilo, Carlo e Margherita
Danilo, Carlo e Margherita

La canapa è solo un anello della catena della storia di questa Valle: da sempre luogo di passaggio, di incontro tra culture, pur rispettando la sua radice montana la Valsusa si è sempre aperta all’esterno. A dimostrare che le Alpi non sono mai state una barriera culturale giunge la memoria degli Escartons, un’area, da alcuni detta Repubblica, che dal 1343 al 1713, sotto il controllo del Delfinato, godette di un’autonomia speciale per i tempi, affrancandosi dalle servitù feudali, che fortificò l’unità economica e culturale delle zone montane che ne facevano parte.
Da questa storica esperienza di gestione CanapaVallesusa coltiva, attraverso la canapa, anche la ricerca sul territorio, perché la varietà culturale sia strumento di unità di una regione in continuo mutamento. Un mutamento che arriva fino a noi attraverso le conseguenze della lotta al Tav: ancora una volta la Valle intera corre in difesa di un territorio già devastato per preservarne la sua specificità culturale e ambientale. Quello che oggi chiamiamo il paesaggio bioregionale. Ora, possiamo davvero pensare che i discendenti di questi “hommes libres” si facciano silenziosamente passare un treno veloce tra i piedi?

 Tra i titoli di coda, ma importante, segnaliamo l’imminente scadenza del bando Terre Originali, di interesse per quanti vogliano diventare giovani agricoltori nelle Langhe. E non solo per loro. Perché la terra è di tutti.



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