10-11 Luglio: Napoli e Scampia

Salutati gli amici di Velletri e di Giulianello è tempo di rimettersi in sella.

Il giro #2RR è nato con la precisa intenzione di esplorare i piccoli comuni, l’Italia “minore” trascurata dalla rete ferroviaria, e a parte le brevi escursioni a Genova e a Roma, abbiamo evitato le grandi città.

Ma l’invito ricevuto da Barbara era di quelli che non si possono rifiutare. Conoscevamo già il lavoro della ONG che rappresenta, Chi rom… e chi no, attraverso Italia che cambia, e abbiamo avuto occasione di ascoltarla dal vivo nel corso del sempre più galeotto Festival della Viandanza. Uno scambio di numeri e l’appuntamento è fissato “tra circa due settimane”, così si schedula quando si viaggia lenti. A Napoli dunque!

Il punto di partenza è Cori, la destinazione odierna Monte San Biagio. Questo significa una piacevole e meritata discesa lungo i colli costeggiando i Monti Lepini. Si può tentare qualche scatto in souplesse tra alture e vigneti fino al giardino di Ninfa, chiuso accidenti. Quasi la chiusura settimanale fosse simbolica, la discesa si trasforma in salita, le nuvole si fanno invadenti, il panorama si fa più scabro. Con una certa curiosità ci avviciniamo al mitico Agro Pontino.

Il tempo di scattare qualche foto alla Torre Normanna di Monticchio -soprattutto al suo cantiere- e agli Archi di San Lidano, e siamo nel vecchio West!

Nonostante sia quasi l’ora di pranzo le nuvole rendono il clima più mite e ci lasciamo volentieri sperdere tra le migliare lungo i canali tra Tufette e Murillo, fidando nella linea d’aria e approfittando che gli automobilisti sono tutti a mangiare (anche se ben presto una autentica trattoria west-pontina ci convince a seguirne l’esempio e a gettarci su una fantasmagorica pasta e fagioli!).
Le ostilità riprendono man mano che ci si avvicina a Terracina, quando siamo costretti a rimetterci sulla Pontina. È giocoforza convivere col traffico, un ultimo slancio e raggiungiamo Monte San Biagio prima del treno, sono soddisfazioni.

#2RR con il clima ha una fortuna sfacciata, e nei giorni in cui si riversano secchiate d’acqua siamo occupati a riordinare appunti e a pubblicare i primi pezzi per Italia che cambia. Dobbiamo però prendere nota come una connessione decente sia ancora un traguardo lontano per troppa parte del territorio.

Tre giorni di sostanziale relax e siamo finalmente pronti a ripartire. A Napoli, a Napoli!
Il cielo è minaccioso ma ancora una volta siamo graziati. Unico inconveniente, una foratura poco prima di arrivare a Sperlonga (spoiler: sarà la penultima di tutto il viaggio!).
Abbiamo voluto toglierci lo sfizio di fare due passi per il centro di Sperlonga, ma a turno, impensabile lasciare le bici incustodite.

In giro per Sperlonga
Per arrivare a Napoli abbiamo ricevuto un consiglio unanime: “non toccate la Domiziana! Prendete il treno!” E treno sia. L’ultima stazione utile che ci permette di goderci la pedalata prima che il traffico assuma dimensioni incontrollabili è quella di Minturno-Scauri. Dunque dopo Sperlonga si procede per Gaeta e Formia. Una piacevole discesa costiera, anche se tocca fare un tratto di statale un po’ intenso. Il sole fa decisamente capolino man mano che ci spingiamo verso la Campania, in un’aria elettrica e stimolante. Ci permettiamo persino il lusso di mangiare un panino in spiaggia a Gaeta!
La stazione di Scauri è il nostro primo serio assaggio di Sud: affollata di vacanzieri di ritorno dalle spiagge (invidia mode ON) e già gravata di un convoglio guasto sul binario. Sarà dura farsi spazio…

Infatti quando arriva il regionale per Napoli il vano biciclette è già pieno di giovani africani carichi di mercanzie. Ma quando diciamo carichi diciamo che veramente è in gioco la legge dell’impenetrabilità dei corpi! Ovviamente di appendere le bici ai ganci non se ne parla… Eppure un capotreno -di una certa età e neppure particolarmente prestante- li manda tutti fuori, con la motivazione che in effetti tra taglia dei passeggeri e taglia dei loro bagagli non può esistere una sproporzione maggiore di quella tra lo stipendio di Marchionne e quello dei dipendenti FCA. Così, molto matter of fact e senza acidi commentini razzisti. A quelli provvedono altri passeggeri cuori di leone.

Stazione di Napoli: curioso sapere che qualcuno ci sta aspettando ai binari. Con la sua pieghevole (beato lui!) Francesco, veterano ciclista partenopeo, è pronto per regalarci un primo assaggio della città.

Non riusciamo proprio a immaginarci nel caotico traffico, invece è una sorpresa vedere che, nonostante i bagagli, sgattaioliamo tra le auto ferme con molta disinvoltura: piazza Garibaldi, Corso Umberto I, via Duomo, Spaccanapoli.

Senza saperlo, la sera assistiamo alla reunion dei Giramondo quasi al completo: a casa di Francesco, dove arriviamo in compagnia di Luca -che ci ospita per la notte- la moglie Federica sta preparando una sfiziosa pasta al sugo. E non siamo gli unici ospiti: conosciamo il terzo elemento dei Giramondo, Chicca, con la sua famiglia. Dei quattro moschettieri in bici manca all’appello solo Enrico.

I Giramondo in Zimbabwe

Ma chi erano i Giramondo? Francesco tira fuori un prezioso album fotografico -regalo di Enrico- del loro primo viaggio in bici in Islanda nel 1988, da dove tutto è cominciato; e poi articoli del loro viaggio in Madagascar nel ’93,  e nel mezzo Lapponia, Alaska, Ecuador, e ancora Zimbabwe, Nuova Zelanda, Albania.

Quando avevamo 24 anni – ci racconta Enrico, raggiunto al telefono- la mountain bike era un mezzo assolutamente innovativo, che dava modo di sognare, di viaggiare su strade di terra. Fotografo e viaggiatore hanno unito le forze: per me è diventata una scelta di vita, sono diventato collaboratore fisso di Bici da montagna e La Bicicletta, per Francesco è rimasto un hobby; il gruppo si è allargato alle nostre mogli, poi sono arrivate le figlie, siamo andati ancora in Austria con cargo e carrellini, poi esigenze familiari ci hanno divisi come gruppo, ma ognuno ha continuato a viaggiare a suo modo.
Dai viaggi orizzontali -fatti di tanti km- mi sono convertito ai viaggi verticali: meno km, meno tracce sulla carta geografica ma più esperienze vissute, magari stando più giorni in un posto, senza un nomadismo itinerante compulsivo. Così ho poi sviluppato le mie qualità professionali di reportage, che puoi realizzare stando nei posti, conoscendoli.

Ciclisti veterani, che ci divertiamo ad ascoltare incuriositi dalle loro imprese. Hanno sempre raccontato il cicloturismo in maniera autoironica e divertente, e già si erano accorti -viaggiando nei paesi poveri- di quanto la bicicletta permettesse di entrare nel cuore delle persone, evitando di porre barriere sociali.

Francesco ed io abbiamo sempre vissuto il cicloturismo come esperienza di conoscenza, mai come impresa o performance, da eroe atleta dell’avventura, che viaggia in maniera egocentrica e racconta la sua avventura per chi sta seduto sulla sua poltrona. Un viaggio come quelli che abbiamo fatto io e Francesco o come avete fatto voi lo puoi rifare milioni di volte e verrà sempre un viaggio diverso!

Quando loro giravano il mondo, in effetti la mania del no limits (era anche il nome di una rivista) aveva contagiato molti, le grandi imprese di Ambrogio Fogar facevano notizia, insieme alle polemiche sulla veridicità dei suoi viaggi estremi. La bicicletta in questo contesto apriva un nuovo immaginario di viaggio di cui loro, i Giramondo, sono stati protagonisti.

Dal cicloturismo al ciclismo urbano: Napoli e la bicicletta. Un difficile connubio? Enrico non vive la città da ciclista, ma sostiene che non sia una città per bici:

devi entrare molto nella mentalità napoletana di guadagnarti i tuoi spazi, entrare nel movimento del traffico, però è una città dove in bicicletta puoi dare molto perché vivi davvero a contatto con le persone. Hai la possibilità di percepire, di capire meglio quali sono le dinamiche dei rapporti sociali, ma bisogna ripulirla di tutti i luoghi comuni, a partire dalla solidarietà tra la gente. Napoli è una città individualista, forse è solo più comunicativa.

Arriviamo il 10 luglio, in città sono fresche le cicatrici della tragedia di via Toledo, quando dei calcinacci si sono staccati da una facciata della Galleria Umberto uccidendo un ragazzo di 14 anni.

I due volti del lungomare: il mare e i jersey.
I due volti del lungomare: il mare e i jersey.

 Il giorno dopo, in una splendida giornata di sole ci concediamo una rilassante pedalata lungo la pista ciclabile del lungomare di via Caracciolo e via Partenope, uno dei simboli più visibili del cambiamento fortemente voluto dal sindaco De Magistris.

Francesco ci racconta come in quello che è stato definito un vero e proprio Black Day della città di Napoli, il 4 marzo 2013, siano avvenuti simultaneamente il crollo di una facciata di un palazzo a Riviera di Chiaia e l’incendio della Città della Scienza di Bagnoli, che tra le altre cose causò l’interruzione di un tratto della pista, da poco inaugurata tra mille speranze.

 Mentre Francesco ci guida verso Scampia, ci apre la città con i suoi occhi.

A Napoli il pedone si fa rispettare perché si prende i suoi spazi, anche in maniera prepotente. Le automobili non sono padrone della strada, ne sono consapevoli e questo crea loro pure frustrazione. È questione di entrare in quel concerto non con una nota stonata: se ti infili entrando al momento giusto, sfruttando gli spazi ma senza ledere i diritti altrui, allora va bene, anche se hai commesso un’infrazione.

Sulle strade del centro
Sulle strade del centro

 I napoletani sono ciclisti recenti, a parte il ciclismo agonistico nell’hinterland non c’è una tradizione consolidata. Vado in bicicletta per Napoli da trenta anni. I segni, i pittogrammi che ci sono in giro per il centro storico non hanno un’utilità pratica da pista ciclabile, ma servono a ricordare che ci sono anche i ciclisti e infatti di napoletani in bicicletta in giro mi sembra di vederne molti di più.

Agli Stati Generali della Bicicletta del 2012 l’allora Assessore alla mobilità e infrastrutture Anna Donati era stata l’oratore più festeggiato quando aveva portato le notizie sulla realizzazione della pista sul lungomare. Il suo successivo licenziamento ci era apparso un segnale negativo.

Anna Donati ha incarnato molto quelle che erano le idee di De Magistris. Mentre in altri contesti le amministrazioni si sono mosse sulla spinta di quello che la popolazione chiedeva, a Napoli sono partiti di loro iniziativa. C’era gente che diceva: “ma cosa fa le piste ciclabili, che qua nessuno va in bicicletta?” e invece quello è stato un modo per educare la popolazione. È vero, in termini concreti è stata solo realizzata una pista, che logisticamente lascia molto a desiderare, ma ora vedi anche tante donne che usano la bicicletta per andare a lavorare, poi nel weekend moltissima gente esce in bici. Anzi, se fai quel famoso pezzo di lungomare il sabato o la domenica oggi, come diciamo noi, sei cacchio: tra i bambini con le rotelline, mamme che accompagnano i bambini, i pedalò (risciò, ndr) con i freni scassati e la gente che non sa manovrare che ti taglia la strada, è di una pericolosità estrema! Era molto meno pericoloso quando c’erano le automobili, almeno quelle vanno tutte in un senso! (risate)

A Napoli è ora attivo anche un servizio sperimentale di bike sharing: 100 bici in 10 stazioni per un progetto finanziato dal Miur valido fino al prossimo maggio, per il quale il Comune ha fornito le infrastrutture.


Da Piazza del Plebiscito entriamo nei vicoli del centro storico “calpestando” la Napoli sotterranea, di cui affiora un pezzo di muro retto da un’arcata: sono i resti del teatro romano di Neapolis, gloria di Augusto e Nerone. Ancora due pedalate e siamo nel rione Sanità, ai piedi della collina di Capodimonte; usciti dall’affollata piazza del mercato si comincia a salire. Ma davvero! Valigie in città, dobbiamo comunque rincorrere Francesco e con la lingua fuori questo è ciò che vediamo una volta arrivati a Capodimonte.

2014-07-11 12.15.26

Andare a Scampia con una guida d’eccezione vuol dire anche percorrere i sentieri nel bosco di Capodimonte. Una sensazione inebriante quella di pedalarci dentro sapendo di essere in una delle città più urbanizzate d’Italia.

Come dopo aver compiuto un rito di passaggio, ancora qualche pedalata sulle strade di Piscinola e dietro una curva, improvvisamente, Scampia. Ce ne accorgiamo dalle strade che all’improvviso si allargano, sembrano quasi delle tangenziali sovrastate da imponenti palazzi. Un’altra città in pratica, non un quartiere.

“Prendete una frittella!” Calda calda nel sole di luglio, appena sfornata, è il succulento biglietto da visita della Gatta Blu fatta con le erbe di Napoli in un orto, un orto sociale sperimentale che sorge all’interno del Centro di Salute mentale del quartiere e gestito dal centro diurno La Gatta blu insieme con il Circolo La Gruuno dei 90 circoli di Legambiente della Regione.

Napoli in un orto -ci racconta Aldo, pilastro del circolo La Gru- è un libro scritto da Rosa Orfitelli, omeopata-nutrizionista, e pubblicato nel 2011, prima che scattasse “il fiume in piena” per i roghi tossici. I principi ispiratori sono quelli di una sana alimentazione, legata alla stagionalità, e il recupero di una tradizione culinaria semplice, popolare, fatta di sapori condivisi. E il libro è stato tradotto in un progetto operativo, sostenuto dal CSV, che ci ha visti impegnati per un anno intero all’interno dello spazio gestito dalla Gatta blu: il laboratorio di falegnameria e quello di ceramica hanno fornito gli elementi di arredo; quello di giardinaggio e ortocoltura hanno creato tre orticelli con i prodotti di stagione secondo i principi dell’agricoltura biologica, alcuni semenzai e degli angoli-giardino con fiori colorati e profumati; è stato ristrutturato il muro di cinta su cui è stato realizzato un bellissimo murale con gli stessi utenti del Centro. Ci siamo mossi nella consapevolezza che la nostra azione non avesse “nessuna velleità terapeutica” ma ben sapendo che il rapporto diretto con la terra, il desiderio di voler contribuire a rendere bello un piccolo spazio FACESSE STARE BENE TUTTI ! 

Girando per l’orto spuntano da ogni angolo murales di stili diversi, dappertutto aleggia lo spirito di Felice Pignataro.

Il mio legame con Scampia nasce nel 1996, in novembre. -ci racconta il giovane Rosario- Aldo, che era il mio professore di Biologia al liceo di Afragola, invitò me, Michele e Ugo ad andare da Felice Pignataro, noto muralista ed intellettuale napoletano che noi avevamo sentito nominare qualche volta da Aldo per poi scoprire che uomo unico fosse, al Gridas, alla Casa delle Culture Nuvola Rossa, per preparare uno striscione per una manifestazione che si sarebbe tenuta a giorni.
Un pomeriggio indimenticabile, per noi ragazzi di un liceo di provincia, ci immaginavamo Scampia come il far west eppure abitavamo a pochi chilometri e ci appariva così lontano, ma ci apparve così accogliente ed ospitale anche nel suo grigiore.
L’ incontro con Felice fu unico, noi giravamo intorno al Gridas e non capivamo dove fosse, lui ci apparve su una vespa, con il retro dipinto, e ci individuo subito, si lavorò allo striscione non una semplice scritta ma una elaborazione collettiva, tante parole dense, colori e risate. Il mio primo incrocio con Scampia e forse la mia prima svolta.

Scampia è di gran lunga il quartiere più verde di Napoli, ma anche quello più giovane, che ha la più alta concentrazione associativa sul territorio. Anche la disoccupazione è molto alta, ma la rete di associazioni è legata a maglie molto strette, tutte operano in solidarietà per restituire al quartiere la sua dignità. Scampia -come vengono chiamati a Napoli i terreni poco curati e infestati dagli arbusti- non ha una storia antica: nasce con la legge 167/62 per diventare nuovo spazio abitativo a carattere popolare, ma cresce a misura di automobile e il pedone fatica a trovare il suo spazio sulla strada. Nasce senza infrastrutture e, pur con una villa di 14 ettari nel centro del quartiere, la gente non riesce a vedere la strada come luogo di aggregazione, rimasta per molto tempo spazio incontrollato in mano al traffico di droga. Quello che rimane delle Vele è impressionante, nel bene e nel male. L’immagine di supermarket della droga si è ridimensionata, ma più che risolto il problema si è forse spostato solo un po’ più in là.
Con qualche timore nella testa, noi ci siamo entrati in punta di piedi, ma l’accoglienza che abbiamo ricevuto è stata disarmante. Nell’arco di una giornata abbiamo incontrato almeno tre associazioni, e molte altre indirettamente, che sono l’anima del territorio: caparbiamente portano avanti un’azione quotidiana e di gruppo cercando di mettere insieme le vite del quartiere.

Mentre Aldo si eclissa a prepararci -dice lui- “un piatto di pasta” Rosario ci porta a vedere il Teatro Area Nord (TAN), altro esempio di progetto faraonico partito tra squilli di trombe e presto lasciato alle erbacce -e poi recuperato con gli sforzi grassroots dell’associazione Vo.di.Sca (Voci di Scampia, progetto associativo e teatrale nato in onore di Antonio Landieri). E che recupero! Veniamo accolti in un momento di pieno splendore dell’orto con i colori ed i profumi degli ortaggi estivi, melanzane, peperoncini ro’ ciumme (friggiarelli), basilico, pomodori, cipolle fiorite, insalate e porri. È Rosario a parlare:

Sono laureato in Sociologia, ma se mi chiedi che lavoro faccio ti rispondo che dipende dai giorni, in alcuni giorni sono un educatore, in altri un fotografo, in altri un video maker , in altri un contadino, in altri un media planner, in altri progettista nel sociale, posso affermare con serenità che non mi annoio.

L'utopia del TAN
L’utopia del TAN

 Ti sembrerà assurdo, ma io a Scampia ho imparato a sognare e a credere che il cambiamento esiste, basta guardare sul lungo periodo e non fermarsi alla logica del presente, non senza sconfitte e delusioni. Qui al TAN l’utopia di creare un giardino delle farfalle ci vede da più di due anni impegnati come Vo.di.Sca a trasformare l’area, di oltre 2000 mq con piante e specie che attirano le farfalle, creando un habitat favorevole, e con il piccolo orto sociale adiacente anche questo punto d’incontro di diverse realtà del territorio.

Dopo il “piatto di pasta” -e non solo!- andiamo a conoscere la mitica Scuola di Calcio Arci Scampia. Nasce nel 1986, per anni unico riferimento sportivo nel quartiere anche prima di ricevere (nel 2008!) una sede dove impiantare i primi campi di calcio. Ora sono 500 i ragazzi che frequentano la scuola. Nel quartiere ancora provato dalla recente uccisione di Ciro Esposito colpisce la signorilità, il senso di fair play, la curiosità positiva dei giovani pulcini che all’entrata in campo di mister Piccolo smettono all’istante gli allenamenti e vengono a salutare festosamente i due bizzarri viaggiatori. Il mister è un maestro di scuola ed è solo uno dei tanti che prestano la loro opera in un florilegio di tornei, incontri nel segno della cultura sportiva, iniziative sociali come Mediterraneo Antirazzista. Ci troviamo insigniti del nostro primo trofeo!

Proprio alla Scuola incontriamo Barbara, anima di Chi Rom… e chi no. L’associazione è nata nel 2002 sullo stimolo dell’esperienza del Carnevale del Gridas e fu proprio Felice Pignataro a regalarle il suo nome, che si fonda sull’attività di creazione di luoghi di relazione e partecipazione tra gli abitanti del campo rom “delle case rosa” e la gente, le scuole, gli spazi pubblici. Quale modo migliore per cominciare ad abbattere gli stereotipi se non quello di autocostruire una baracca -abusiva naturalmente- nel campo rom, dopo aver chiesto loro permesso? Da qui sono nate, ci racconta Barbara, una serie di iniziative, la più ambiziosa delle quali è Chikù, il primo ristorante italo-romanì, luogo multiforme di sperimentazione pedagogica e interculturale, una vera e propria impresa gestita da La Kumpania (che fin dal 2011 lavora sui percorsi gastronomici interculturali), all’interno della struttura dell’Auditorium della Villa comunale.
Mentre sfogliamo le pagine del Piccolo Abbecedario italiano/romanès, frutto del lavoro di relazione tra due mondi diversi, riflettiamo sull’eterna discrepanza tra realtà e rappresentazione: a dispetto della maschera costruita dai media, questa è una periferia che, come tante altre, soffre l’abbandono delle istituzioni, ma ha imparato a reagire attivamente al disagio costruendo reti sociali alternative al punto da dare il cattivo esempio alle comunità vicine.
Diamo ancora la parola ad Aldo:

 In ogni caso si tratta di una situazione che paragonata ad altre realtà (anche al centro) si può definire confortante ed in evoluzione. Pensando a queste reti mi è venuta in mente una briosa lezione di chimica con la quale intrattenevo i miei studenti del liceo. Si parlava di legami chimici ed in particolare del “legame idrogeno” o “ponte di idrogeno”, un legame intramolecolare debole, che consente a molecole fortemente polari di esercitare una forza intermolecolare particolarmente intensa e significativa. E’ il legame che caratterizza le “molecole della vita”, che tiene unite le due eliche del DNA e, soprattutto, tiene unite le molecole dell’acqua determinando quelle caratteristiche particolari ed uniche di questa sostanza la cui presenza ha consentito e consente la presenza della vita, nelle sue diverse forme, sul nostro pianeta. Da ciò partiva una serie di suggestioni tra le quali quella che la “debolezza individuale” consente la possibilità di determinare “la forza del gruppo”.

Le reti efficienti, secondo il mio parere, sono quelle che si stabiliscono tra realtà associative con una identità definita ma non granitica, non autocentrate sulla propria caratterizzazione, sulle proprie iniziative, alla ricerca spasmodica della propria visibilità, ma aperte e disponibili a perdere anche “un pezzetto di sé” a fronte di un “progetto comune” al servizio di una realtà più vasta. Quelle che hanno un “occhio attento” capace di guardare oltre il proprio recinto, di percepire la varietà di situazioni che si presentano, di assumere e rilanciare anche quello che nasce in ambito diverso, vicino o lontano che sia. Insomma quelle dove il pronome personale “io” viene ridimensionato nei confronti del pronome “noi” che sicuramente ha maggiore possibilità di successo nell’obiettivo di trasformare la società secondo una logica partecipativa e comunitaria.
Da questo punto di vista credo che a Scampia siamo sulla buona strada, anche se c’è ancora da… camminare.

Ubriachi di incontri, sensazioni e carichi di appunti,  recuperate le bici nel Centro Hurtado, pedaliamo indisturbati sotto una placida notte stellata per i vialoni semideserti per raggiungere don Sergio. Ci aspetta, chiavi in mano, davanti alla Chiesa di S. Maria della Speranza, dove siamo ospiti per la notte. In sacrestia, si intende!

L’indomani, sveglia alle 8 con i cori della Messa, riprendiamo la strada verso sud (con tappa in città per recuperare le valigie) e su uno dei vialoni facciamo ancora in tempo a incrociare un imponente edificio con un porticato di sei colonne, è ‘o Mammut, centro territoriale di aggregazione e sperimentazione pedagogica, secondo il Metodo Mammut. Potrebbe gemellarsi con quello di Rebibbia

Au revoir, Spaccanapoli!
Au revoir, Spaccanapoli!

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